Chi investe in un prodotto televisivo apprezzato ha il vantaggio di contare su un pubblico numeroso ma si carica anche di una certa dose di rischi a causa delle aspettative molto alte da parte degli spettatori. Negli ultimi anni il mercato delle serie tv ha iniziato ad investire nei revival, produzioni che possiamo definire vere e proprie “riesumazioni”. La prassi ormai consolidata da tempo è quella di produrre film per la tv o addirittura film per il grande schermo a conclusione di fortunate serie televisive. Penso a Sex and the city o Veronica Mars. Ma sul mercato iniziano ad affacciarsi anche nuovi episodi per serie tv concluse da tempo che invece tornano miracolosamente in vita. Produrre intere nuove stagioni è un’attività che ha preso piede negli ultimi anni e si è intensificata specialmente quest’anno. La nuova tendenza di ritorno al passato ha, da una parte, un non so che di nostalgico – la massiccia pubblicità che subiamo per l’imminente uscita di queste serie genera infatti grandi tuffi nel passato – d’altra parte, per gli addetti ai lavori, non può che risultare altamente strategica.
Lo scorso anno Netflix ha acquistato le sette stagioni di Gilmore Girls (2000-2007) ed ha scelto di produrre quattro nuovi episodi delle vicende di Lorelai e Rori a ben dieci anni dalla messa in onda dell’ex series finale.
I produttori hanno saputo generare una frenetica attesa nei confronti dei nuovi episodi della serie con interviste agli attori, immagini dal set che pian piano si trasforma nella indimenticabile Stars Hollow, indiscrezioni e polemiche.
La geniale trovata di scandire il tempo della narrazione – suddiviso in inverno, primavera, estate ed autunno – ricalcando lo stile della serie e la presenza – più che altro una sorta di mera apparizione, senza troppa rilevanza al livello narrativo, in alcuni casi – di larga parte del cast originale però non è bastato a mio avviso per accontentare gli appassionati.
Non intendo sentenziare sul finale (se abbia ripagato o meno le aspettative) e neanche spoilerare alcunché ma sono preoccupata per le voci circa un revival del revival che Netflix avrebbe intenzione di mettere in cantiere. Quando si tira troppo per le lunghe una serie tv, le cose, chissà perché, vanno sempre a finir male. Già in questo revival, dal mio punto di vista, abbiamo assistito ad alcune storyline poco consistenti e gestite in modo insensato (il fidanzato di Rory ad esempio) ed altre risolte in modo troppo sbrigativo. Si corre troppo e spesso il traguardo raggiunto non è poi così soddisfacente.
In conclusione ho trovato il tutto troppo “finto”, o meglio troppo costruito con l’intento di far risaltare la spettacolarità dei mezzi a discapito dell’impianto tutto sommato realistico delle stagioni precedenti. Basti pensare ai momenti da musical di Broadway rispettivamente nelle scene della “Brigata della vita e della morte” e in quelle della fuga notturna sul finale. Questo stile grandioso e spettacolare è totalmente assente nelle stagioni originali in cui anche ciò che è “da film”, come può risultare ad esempio la proposta di Max Medina a Lorelai, è trattato con estrema semplicità. Il mio timore è che con l’astuzia dei produttori di produrre nuovi episodi si possa correre il rischio di snaturare ancora di più la serie, oltre che i personaggi, come già successo purtroppo con la figura di Rori.
Un tentativo di revival travestito da spin off che sta riscuotendo grande successo di pubblico e di cui sono follemente innamorata è invece Better call Saul. La terza stagione tornerà a breve (10 aprile) e potremmo immergerci di nuovo nelle atmosfere della Albuquerque di Breaking bad con l’arrivo di una vecchia conoscenza non da poco: Gus Fring. Better call Saul non è un semplice spin off. E’ una serie nella serie. Come qualsiasi spin off narra le vicende di uno o più personaggi secondari tratti dalla serie madre ma in questo caso anziché discostarsi da essa e procedere per la sua strada, diventa una sorta di prequel in cui aspettarsi da un momento all’altro la comparsa di Walter White. Chissà che un giorno le due linee temporali non si ricongiungano. Dunque non ci resta che continuare la visione di questo piccolo gioiellino per scoprirlo.
Intanto quest’anno stiamo anche per assistere al ritorno sul piccolo schermo di due serie che pensavamo ormai concluse da molti anni e che invece torneranno in onda con nuovi episodi: Prison Break (dal 20 aprile) e Twin Peaks (dal 21 maggio).
Prison Break dopo due stagioni strepitose si perde a Panama con le stagioni successive. Con The final break, il film per la televisione in due parti, la sensazione è che la storia dei fratelli Michael e Lincoln si sia del tutto esaurita e che non ci sia altro da raccontare. L’imminente riesumazione della serie che coincide con la resurrezione di Michael sembra quasi un insulto nei confronti degli spettatori, i quali, già abituati a colpi di scena in cui i protagonisti risultano morti ma non lo sono, iniziano un po’ a stancarsi di autori che si prendono gioco di loro. A questo punto mi viene da chiedere: chissà se riusciranno a riscattarsi stupendoci positivamente.
Twin Peaks esordisce sull’emittente ABC l’8 aprile 1990 e viene bruscamente interrotta l’anno successivo. La rivelazione circa l’identità dell’assassino di Laura Palmer coincide con la perdita di interesse da parte di una larga fetta di pubblico interessata solo all’ossessivo quesito “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. Benché la serie rappresenti una breve parentesi ha cambiato inesorabilmente il modo di concepire le serie tv. La qualità del cinema, con un regista del calibro di David Lynch, approda in tv ed è qualcosa di davvero straordinario. A 27 anni dall’esordio, i segreti dell’omonima cittadina tornano sugli schermi per una terza stagione che ha il sapore del riscatto, sia nei confronti di un capolavoro rimasto incompiuto – Lynch in verità diresse il prequel Fuoco cammina con me, incentrato sull’ultima settimana di vita di Laura Palmer, come ideale conclusione della serie – sia nei confronti della fetta di pubblico che avrebbe volentieri continuato ad esplorare l’universo di Twin Peaks nonostante il mistero fosse stato svelato.Lynch in questa serie, come anche in molti suoi film, gioca con ciò che Freud chiama il perturbante. Secondo Freud il perturbante “appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che genera angoscia ed orrore”, alla sfera di ciò che tanto è sconosciuto quanto al contempo noto e familiare. Il lato oscuro che avvolge una cittadina apparentemente lieta (come la Lumberton di Velluto blu), il male che si insinua nell’animo delle persone più care, l’universo parallelo e metafisico sono tutti elementi che attivano il meccanismo del perturbante, dell’enigmatico e dell’inquietante. Il regista gioca spesso con l’inquietudine che cresce nell’animo dello spettatore. A mio avviso proporre un salto temporale così ampio può essere utile proprio per innescare questi meccanismi. Il 21 maggio vedremo cosa Lynch avrà in serbo per noi con la speranza che la fiducia riposta sia ben ripagata.
In genere il rischio che gli appassionati fan delle serie del cuore non guardino le nuove stagioni è pressoché nullo. Personalmente se venisse prodotta anche una settima stagione di Lost, eventualmente con protagonisti i figli degli Oceanic 6, per quanto l’idea possa essere poco allettante, la guarderei comunque. Il rischio maggiore dunque è tutto a carico degli spettatori. La delusione infatti è sempre dietro l’angolo. Basta poco per snaturare una serie tv e rovinare irrimediabilmente il ricordo di chi ha riso e pianto per anni con essa.